Narrare il «pestifero contagio»: le pesti borromaiche

Di Silvia Morgana

 

È Archileo Carcano, professore di medicina a Pavia, a descrivere la varietà di manifestazioni cutanee pre- senti «ne corpi già infettati» nel suo Trattato di peste utilissimo (1577), un’operetta in volgare di taglio divulgativo e pratico. A distanza di pochi decenni, in occasione del nuovo violento morbo che si abbatte sulla città, anche l’illustre protomedico Lodovico Settala riterrà utile e opportuno abbandonare il latino scientifico del suo De peste in cinque libri (1622) e scrivere «nella nostra lingua» una sintetica Preservatione dalla peste (1630), dove «s’insegna la cura de ’buboni, carbonci, e furoncoli pestiferi» – pp. 45-46 – «per agiutare li Barbieri, o chirurgi, solo di prattica». Con le due epidemie borromaiche si sviluppa a Milano una copiosa e variegata letteratura “pestilenziale”, favorita dalle richieste del mercato librario. Oltre ai trattati medici teorici e pratici, escono a stampa pubblicazioni appartenenti a generi letterari diversi, di autori laici e religiosi, in latino e in volgare, in prosa e in poesia, che narrano il contagio da prospettive e con finalità differenti (Ferro 1975). Anche il medico Giovanni Moneta accoglie nei suoi (brutti) versi l’interpretazione borromaica della pestilenza come duro ma giusto flagello divino, finalizzato a una rigenerazione spirituale e morale della città:

 

Giusto veggo Signor esser lo sdegno, | che t’ha mosso a mandar l’horrenda peste, | per far gran strage in quelle parti, e in queste [...] Ma poi che de gli error pentito homai, | a te si volge con devota mente, | e piangendo perdon ti chiede ogn’hora. | leva l’aspro flagello, i duri guai... (Besta 1578, f. 58).

 

L’esegesi di Carlo Borromeo, protagonista indiscusso e carismatico degli eventi, attraversa l’intera gamma della produzione letteraria, culminando nel Memoriale dell’arcivescovo «al suo diletto popolo della città e diocese di Milano»;

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