«Ma io ch’aveva frize venenate | gli era crudel più che non son soldati»: il racconto della peste lombarda nella quattrocentesca LETILOGIA di Bettino da Trezzo
Di Silvia Isella Brusamolino
I. La Letilogia e Bettino da Trezzo
La tragica epidemia di peste che nel 1485 investì il ducato di Milano, forse la più violenta tra le numerose che nell’arco del Quattrocento, in particolare dalla metà del secolo, si svilupparono a più riprese nei territori visconteo-sforzeschi, è al centro del racconto della Letilogia di Bettino da Trezzo, toccato dal contagio negli affetti più cari, scritta «per fugir ocio et spassare | l’aspro cordoglio del perduto figlio» (nel 1485, nel forzato ozio in villa, Bernardino Corio dava l’avvio alla sua Patria historia e da quella data il notaio Donato Bossi iniziava la sua Chronica).
Testo dalla complessa e stratificata lessicalità, oscillante tra volgare, latino e dialetto, ancora non toccato dalla toscanizzazione che investirà la cultura milanese più aggiornata nello spazio di pochi anni, la Letilogia apparve a Milano nel 1488 per i tipi dello Zarotto (Barbieri 1996; cfr. qui Appendice): un lungo e articolato monologo che la morte pronuncia in prima persona per dar conto della propria forza vincente nei confronti dell’umanità tutta, vittima della pestilenza, quasi un castigo divino a espiazione dei peccati.
Il testo, più di seimila «indocili endecasillabi» a rima incrociata «imbrigliati» (Dionisotti 1989, pp. 227- 228) in quartine anziché nelle più aggiornate ottave, articolato in dieci sezioni (non è utilizzato il termine canti) è offerto dall’autore, Bettino Uliciani da Trezzo, per il tramite del medico pavese Teodoro Guarneri, ad Ascanio Maria Sforza – figlio di Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, fratello di Galeazzo Maria e di Ludovico, vescovo di Pavia e dal 1484 cardinale diacono dei Santi Vito e Modesto in Macello – come appare dalla ricca sezione di apertura dell’incunabolo, con sonetti di dedica sia latini sia volgari di Bettino allo Sforza accompagnati da quelli responsivi dello stesso Sforza.
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