Di Angelo Stella
Hanno scritto, in tempi e collaborazioni diverse, della peste e della pestilenza: la peste si definisce in una diagnosi, ma la storia ne ha fatto un simbolo, mitologico, biblico, cristiano, furia, parca, punizione divina: può aggredire e uccidere; la pestilenza è viverne l’aggressione, soffrirne le conseguenze, fino alla morte. È un male sociale, pandemico, ma sempre si muore da soli. La peste introduce alla fame e alla guerra, alla sofferenza della fame e della guerra, nel climax dei tre flagelli dell’umanità: scongiurava la liturgia delle rogazioni: «A peste, fame et bello... Libera nos, Domine».
La nostra educazione classica ci informava della peste del 1348 (il quarantotto già da allora voleva entrare nella storia, prima dell’ottantanove e di altri anni antonomastici celebrati e festeggiati), perché il Decamerone ne parla, e ne trae occasione di festosità e di memorabili narrazioni. Veniva ricordata per un confronto di fonti e di stili, insieme alla peste omerica, quella Atene (430 a.C.) narrata da Tucidide: non a caso le due pestilenze storiche saranno “comparate” da Giuseppe Ripamonti a quella federiciana e manzoniana, nel quinto libro del De peste (si rinvia a Ripamonti 2009).
Quasi dimenticata invece, anche alla nostra acculturazione lombarda, la peste del 1485, alla quale un oscuro poeta, Bettino da Trezzo (sull’Adda), ha dedicato un poema (migliaia di endecasillabi, organizzati in impervie quartine), dal titolo estremo ed esiziale, Letilogia. Era dedicato al nostro, pavese e milanese, Ascanio Sforza, fratello di Ludovico il Moro e cardinale vescovo di Pavia, e registrava, si direbbe conoscenze e carte topografiche alla mano, i lutti di Milano, di Pavia, di Como, di Lodi.
[…]