Di Giorgio Panizza, Giulia Raboni
A metà Settecento, nella Milano che il governo di Maria Teresa si avviava a trasformare in profondità, le epidemie di peste appartenevano a un passato lontano. L’ultima, devastante, era stata quella del 1630. Ma la loro memoria, la loro minaccia, continuavano a essere presenti, tra il fondo collettivo dei ricordi orali che la “bibbia dei poveri” nei quadroni del Duomo e in molti altri contribuiva ad alimentare per la peste di san Carlo del 1576, fino all’attenzione colta di Muratori già milanese, che anche pensando a quella di Federico pubblicava nel 1710 Del governo della peste, e delle maniere di guardarsene. È la persistenza di questo ricordo che permette alla fine, negli anni centrali del secolo, di percepire una distanza, di mostrare la forza di cambiamenti irreversibili. Per chi, come Pietro Verri, misurava la necessità delle riforme nel confronto con l’arbitrio dei poteri e con il disordine dell’economia propri dell’età spagnola in Lombardia, la peste indi- cava la punta più alta del diagramma della decadenza; era, per così dire, l’espressione di quelle condizioni sociali e culturali. Una tale lettura del passato, che opponeva riforme a tradizione, metteva in discussione un assetto politico e sociale che anch’esso in realtà persisteva da decenni, e che si manteneva e cercava di resistere anche nel passaggio dal dominio spagnolo a quello della casa d’Austria. Era pure una questione di generazione: alcuni giovani patrizi si opponevano ai padri, e contro di loro, contro il loro organo di governo e di rappresentanza, il Senato di Milano, trovavano in Vienna un interlocutore cui offrire la propria alleanza.
Un monumento è emblematico di questa storia. A obbligare i milanesi al ricordo della peste del 1630 era un luogo: lo spazio rimasto vuoto all’incrocio tra la contrada della Vedra e il corso di Porta Ticinese, dove si trovava la casa-bottega del barbiere Gian Giacomo Mora, che era stata rasa al suolo.
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