La peste manzoniana e la negazione della realtà

Di Mariella Goffredo

 

«La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia». Così Manzoni inizia a raccontare «la calamità» – la peste nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi Sposi: due capitoli storici dedicati interamente alla peste, tema che doveva apparire all’autore, fin dalla prima ideazione del romanzo, un punto d’arrivo fondamentale, due capitoli che offrono al lettore una ricostruzione storica condotta su un’attenta lettura di documenti di storiografi e cronisti, dal Ripamonti al Tadino, al Somaglia, al Lampugnano, al Borromeo, a Pio La Croce, a Francesco Rivola, al Muratori, al Verri, nomi che ritornano, con brani documentari tratti dai loro scritti, nella Storia della Colonna Infame.

La peste cominciò a diffondersi nello Stato di Milano tra l’ottobre e il novembre 1629. Inizialmente, la causa dei decessi fu attribuita all’indebolimento fisico, provocato dalla carestia, dalla guerra e dalla miseria ma, in realtà, il contagio fu portato in Lombardia dalla discesa delle truppe tedesche al comando di Albrecht von Wallenstein, che penetrarono dalla Valtellina dirette a Mantova per porre l’assedio alla città e nelle cui fila covava da tempo la peste in forma endemica.

Il Tadino indica come primo portatore di peste nella città un fante italiano «sventurato e portator di sventura» un certo Pietro Antonio Lovato di Lecco (secondo Ripamonti Pier Paolo Locati di Chiavenna), che, il 22 ottobre del 1629 (per Ripamonti il 22 di novembre ma per Manzoni probabilmente ai primi di quel mese), era entrato a Milano con un gran fagotto di vesti comprate o rubate agli appestati soldati tedeschi: il soldato si fermò due giorni in casa di sua zia Elisabetta, presso Porta Orientale (dalle parti dell’attuale corso Venezia), s’ammalò, fu portato in un ospedale cittadino, e in due giorni morì.

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