L’etimologia della parola epidemia, che la designa quale manifestazione collettiva di malattia contagiosa (a suggerirne la portata capace di sovrastare suo malgrado l’umanità intera), riconduce all’antica Grecia. All’epoca classica risale anche la prima narrazione, in chiave mitica, che di un’epidemia la storia della letteratura occidentale annoveri ai suoi albori: il primo canto dell’Iliade di Omero, infatti, racconta notoriamente di una malattia terribile, che colpisce l’accampamento alle porte della città di Troia nel decimo anno di guerra (sec. XIII a.C.), come conseguenza del castigo divino scagliato contro gli Achei da Apollo, a ciò scongiurato dal sacerdote troiano Crise, affinché sia punito l’affronto di Agamennone, re di Sparta, che ne ha ridotto in schiavitù la figlia Criseide. È il dio stesso a calare furente dall’Olimpo sfrecciando dardi pestiferi, che colpiscono dapprima gli animali, poi gli uomini: nell’interpretazione omerica, la peste ha dunque una imponderabile origine soprannaturale in linea con la visione antropologica del mondo pagano, che ritiene il capriccio degli dei responsabile di ogni umana sciagura. Quasi mero pretesto per avviare appena dopo il proemio il racconto dell’ira di Achille contro Agamennone, la peste è perciò evocata da Omero come catastrofe ineluttabile, senza prestare attenzione all’anamnesi scientifica dei sintomi o alle cause materiali del contagio. Manzoni possedeva l’Iliade nella traduzione italiana in versi sciolti di Anton Maria Salvini edita in quattro tomi dalla Stamperia del Seminario di Padova nel 1760 (oggi alla Biblioteca del Centro Nazionale di Studi Manzoniani) e il vivo interesse suscitato dal poema in età neoclassica e romantica è rappresentato in mostra dagli esercizi di traduzione dei suoi illustri contemporanei Foscolo e Monti.