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Come era avvenuto nel 1450 sotto Francesco Sforza, la mobilità dei pellegrini per il Giubileo del 1575 fu concausa scatenante della micidiale diffusione della peste originatasi in Trentino dall’anno precedente. Milano e la Lombardia ne furono contagiate nell’estate del 1576, divenendo ben presto le aree più colpite della Penisola: già all’inizio dell’autunno di quell’anno il lazzaretto di San Gregorio giunse al livello di saturazione, necessitando dell’approntamento di circa duecento capanne aggiuntive. Oltre alla paralisi di ogni attività produttiva interna, la città e il suo territorio circostante soffrirono di un pervicace isolamento da parte del resto d’Italia: a quel tempo sotto la dominazione spagnola ma vilmente abbandonata dal suo governatore, Milano poté di fatto contare unicamente sulla guida del vescovo Carlo Borromeo, che tra molti provvedimenti (inclusa la quarantena generale dal 29 ottobre 1576) dispose il completamento del lazzaretto e ne affidò la gestione all’ordine dei frati cappuccini. Debellata solo nel 1578, l’epidemia doveva tuttavia ripresentarsi implacabile nel 1630, preparata da un ulteriore periodo di grave carestia tra il 1627 e il 1629, come ben comprese il cugino di Carlo Borromeo, il cardinale Federigo. Triste novità di questa seconda peste borromaica (che Manzoni avrebbe reso celebre due secoli dopo), rispetto ad ogni altra epidemia precedente, fu l’insensata caccia ai cosiddetti untori, che ne fomentò anzi maggiormente il dilagare, culminando nell’estate del 1630 con circa seicento vittime giornaliere. Si calcola che, quando alla fine di quell’anno il morbo regredì, i morti complessivi della sola Milano ammontassero a centocinquantamila.

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