A quasi quindici anni dalla prima formulazione (più narrativa e meno saggistica) al tempo del Fermo e Lucia, nel 1839 Manzoni tornò con rinnovato impegno al progetto della Storia della Colonna Infame, sottoponendolo a una integrale riscrittura, preparata da erudite letture aggiuntive e ripensata radicalmente nella struttura: non più inglobata al romanzo come ampia digressione storica ma ad esso affiancata come appendice, a comporre un dittico ideale. Mettendo a frutto la decisiva revisione linguistica che portava parallelamente anche I Promessi Sposi ad approdare all’edizione “quarantana” e rimodulando la fondante concezione del rapporto storia-invenzione, Manzoni impiantava il lavoro su solide basi storiografiche, che tengono conto dell’esempio delle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, prescelto come paradigma da integrare e contestare sulla medesima materia (lo scempio delle torture inflitte ai condannati al processo agli untori, a seguito della peste del 1630). La distanza tra i due autori si misura particolarmente nell’escussione delle trattazioni dei criminalisti (biasimati da Verri ma riscattati da Manzoni) e nella severa condanna rivolta ai giudici, ritenuti i reali responsabili degli strazi dell’iniquo sistema giudiziario seicentesco. Mettendo in campo una eziologia giuridica del dolore e della sofferenza, la Storia della Colonna Infame sottende la stessa radice di fondo del romanzo, riproponendone la materia esistenziale rivista alla lente deformante del diritto penale.