Scegliendo l’innovativa formula illustrativa (sino ad allora peraltro inusitata in Italia) del libro xilografico, Manzoni sovrintese direttamente, con ferrea regia (depositata in una congerie di istruzioni manoscritte), al confezionamento dell’edizione definitiva del romanzo, coadiuvato dalla moglie Teresa Borri Stampa e da un gruppo di collaboratori: Gaetano Cattaneo, Bianca Mojon Milesi, Luigi Rossari e Tommaso Grossi. Dopo un iniziale fallito coinvolgimento di Francesco Hayez, alla data del contratto di edizione con i tipografi Vincenzo Guglielmini e Giuseppe Redaelli (13 giugno 1840) ci si era ormai affidati all’illustratore Luigi Sacchi, fondatore della prima officina xilografica della Penisola. Nutrito fu il novero di disegnatori coinvolti: dal figurista Paolo Riccardi al ritrattista Giuseppe Sogni, dal paesista Luigi Riccardi al vedutista Luigi Bisi, al prospettico Luigi Moja, includendo anche la partecipazione straordinaria di Massimo D’Azeglio. Tuttavia, la personalità in misura più cospicua responsabile della quasi totalità delle 400 vignette fu quella del torinese Francesco Gonin, considerato da Manzoni “ammirabile traduttore” in immagine dell’opera, capace addirittura di “tirar linee magiche”, al punto di giungere a pensare di mutare il testo “se all’artista torna meglio”. La sua cursoria tecnica grafica si dimostrava infatti funzionale all’essenzialità di un genere più moderno di immagine adatto al libro illustrato, come dimostrano - quasi istantanee precorritrici dei fotogrammi cinematografici - i bozzetti autografi che qui si offrono selettivamente in visione. Di particolare interesse per la simbologia della peste sono i capilettera allegorici del capitolo XXVIII (bozzetto n. 279) e del capitolo XXXI (bozzetto n. 296): sia la carestia figurata per antifrasi come falsa abbondanza (con la cornucopia vuota e rovesciata), sia la peste come demoniaco mietitore svelano la colta radice ecfrastica, che si coniuga in Gonin al piglio narrativo da vignettista storico.