Charles Baudelaire, con le sue traduzioni in francese, lingua delle classi colte del sec. XIX, diffonde in Europa la conoscenza di Poe. In Italia, la Scapigliatura si lascia subito catturare dalle sue atmosfere cupe, malate, orrorose: tra i primi, Iginio Ugo Tarchetti, che in Fosca (1869) celebra la seduzione del male che contagia, contamina e reca con sé i germi della perdizione. Anche negli autori italiani la malattia, come entità da riferire al corpo, si interseca col male, come entità che appartiene alla mente e all’anima: positivismo e simbolismo e, a ruota, il decadentismo, forniscono in alternanza suggestioni e alimento alla scrittura. Nel primo ambito si inserisce la riscrittura in versi (1885) del poema La sifilide (1530) di Girolamo Fracastoro: è il regalo di Antonio Manganotti al figlio, nel giorno della sua laurea.
Emilio Salgari pubblica nel 1904 La città del re lebbroso, ambientato in Siam, romanzo in cui la pandemia mortale che colpisce gli elefanti è opera dolosa dell’uomo; sarà un medico italiano, Roberto Galeno, a salvare il protagonista Lakon-tay e a sventare con lui il piano criminoso. Il dovere del medico (1910) di Luigi Pirandello è novella, divenuta poi atto unico, che affronta, ante litteram, il problema del dovere etico del medico: è giusto tenere in vita un paziente che desidera la morte, per non affrontare una vita insopportabilmente dolorosa?
Traccia nitida delle traduzioni di Baudelaire è presente nelle novelle di Guido Gozzano, come attesta, anche nel titolo, La vera maschera (1914): qui il morbo è la follìa, la demenza, male che si insinua nelle pieghe della società civile, sovente senza essere subito riconosciuto. Poco noto, ma intenso, è il racconto Peste a bordo (1936) di Curzio Malaparte, una sorta di rielaborazione della peste de I Promessi Sposi nella Grecia degli Argivi: da considerare un’anticipazione della peste a Napoli, narrata nel romanzo La pelle (1949).
Letale e senza scampo è La peste motoria (1958) di Dino Buzzati: essa colpisce auto, macchinari, motori, la cui fine è raccontata in un surreale antropomorfismo. Ne Il male oscuro (1964), Giuseppe Berto racconta d’altronde ‘il male di vivere’, la depressione: dolore dell’anima che si riverbera nel corpo, uno dei morbi più diffusi e insidiosi nella società moderna.